Colpi di pistola, periferie e volti aggressivi in bianco e nero. “L’Odio” (La Haine) di Mathieu Kassovitz, film vincitore del premio per il miglior regista a Cannes nel 1995, è una di quelle poche pellicole tanto semplici nella messa in scena quanto complesse nei temi. Un lungometraggio in cui è descritta una giornata di tre giovani teppisti della Parigi di fine millennio, tratta la violenza, i conflitti, la guerra, il razzismo, il potere ed ovviamente come si nota dal titolo del film stesso, l’odio nella società contemporanea.
Sono tanti quei cineasti che si occupano di questi temi affini al sociale, ad esempio Spike Lee, che sviluppa queste idee nel capolavoro “Fa’ la cosa giusta” (1 989); anche se, egli presenta i conflitti umani in modo totalmente diverso, mostrando una visione molto più intima e pura nella narrazione. Parecchi descrivono il razzismo, altri la delinquenza giovanile, ad esempio il meraviglioso “City of God” (2002), ma nessuno sa rappresentare questi argomenti come fa L’Odio.
La trama del film non è per niente articolata, è semplicemente mostrato un giorno qualunque nella vita di tre amici delle banlieue – periferie – parigine: Vinz, Said e Hubert. Dopo una rivolta che ha portato l’amico Abdel in ospedale per colpa della polizia, i ragazzi discutono dell’accaduto e girovagano per le strade della città come sono soliti fare. Anche se la storia del lungometraggio è stata inventata da Kassovitz, comunque molti aspetti sono realmente accaduti. Il regista iniziò a scrivere la sceneggiatura dopo un massacro nelle banlieue, dove un giovane venne ucciso dai poliziotti; e proprio nei titoli di testa, si vede un montaggio delle rivolte accadute nei luoghi dove è stata girata la pellicola. Anche se occorrerebbe affrontare i temi trattati nella narrazione, prima bisogna soffermarsi sui protagonisti del film, che presentano sfaccettature differenti nonostante siano cresciuti nel medesimo ambiente. Il primo ragazzo, l’ebreo Vinz, interpretato da un giovanissimo Vincent Cassel, è davvero irascibile, si mostra scontroso con chiunque gli si ritrovi davanti, perfino i suoi amici. Negli atteggiamenti cerca di somigliare – come si può dedurre dall’iconica scena allo specchio in cui lo imita – a Travis Bickle, il protagonista di “Taxi Driver”. Come quest’ultimo vuole attuare una rivoluzione a New York nel capolavoro di Martin Scorsese, anche Vinz ne L’ Odio vuole seguire il suo percorso. Infatti dopo aver trovato una pistola smarrita, immagina di potersi ribellare alla società uccidendo un poliziotto, vendicandosi dell’amico massacrato Abdel. ln realtà Vinz, che si mostra tanto duro davanti alle persone, è soltanto una testa calda, una persona che perde il controllo dinnanzi a qualsiasi situazione, che non fa vedere coraggio in alcun momento dell’intero lungometraggio. Probabilmente se il film fosse stato scritto o girato da un altro regista, il personaggio di Vinz sarebbe apparso ancor più complesso, con le sue debolezze molto più evidenti. Per fortuna però, esse si notano a malapena, o meglio, a causa del tono così crudo della pellicola, sono messe in secondo piano per lasciare spazio ai temi centrali, l’odio e la violenza. Se la figura di Vinz fosse stata arricchita ancor di più, e ciò vale anche per gli altri protagonisti, il fulcro della storia sarebbe stato tralasciato.
Una scena tuttavia fa trasparire parte del suo essere: ossia quando in mezzo alle strade della periferia, nota una mucca girovagare nei vicoli come se niente fosse. Essa secondo alcuni spettatori è un simbolo di morte, ma dato che nessuno oltre Vinz la vede, potrebbe semplicemente raffigurare il suo essere alienato e sentirsi fuori dalla società in cui vive.
Il secondo protagonista del film, Hubert, ragazzo nero e molto più razionale degli altri personaggi principali, è forse l’unico che si dimostra responsabile nelle proprie azioni. Sogna di poter scappare dalla periferia, poter fare qualcosa di più, magari evitando le scorribande che vive di giorno in giorno. A differenza di Vinz e Said non è aggressivo, controlla le sue azioni in ogni momento e si mostra assai più maturo, anche se il suo destino non si dimostra differente. Hubert probabilmente è l’unico personaggio
“positivo” della pellicola, date le sue intenzioni meno aggressive rispetto ai propri amici, ma proprio perché vive nelle banlieue, il regista Kassovitz non crea speranza nello spettatore, difatti nemmeno per un momento si può immaginare che il giovane possa fuggire da questo luogo tanto opprimente.
L’ultimo protagonista, il maghrebino Said, non presenta idee concrete a differenza degli altri. Da un lato Hubert vorrebbe scappare dalla periferia, dall’altro Vinz vorrebbe far nascere una rivoluzione, e nel mezzo Said, non prende decisioni vere e proprie. A volte si dimostra furioso come l’amico Vinz, in altri momenti invece è più riflessivo come Hubert; davanti ad alcuni poliziotti innesca la rivolta, dinnanzi ad altri rimane calmo. Per tutto il film Said si dimostra uno spettatore in prima persona degli eventi descritti, anche se ovviamente, vivrà il pericolo delle banlieue come chiunque altro.
Tra gli elementi principali dell’intera pellicola, si rammentano i continui riferimenti, non solo visivi ma anche sonori, ad armi di ogni genere, soprattutto pistole. Proprio quella trovata dal protagonista Vinz, che per l’intero film non viene mai utilizzata a causa della codardia del ragazzo, appare costantemente su schermo, nonostante il suo mancato uso. Ogni colpo di arma da fuoco che si sente è molto più forte di qualsiasi altro suono udibile, anche più della colonna sonora, proprio per rappresentare il terrore della violenza. Una delle scene più significative, che tecnicamente si mostra ineccepibile, è quella in cui degli amici di Vinz uccidono dei ragazzi dentro un locale, e la macchina da presa fa vedere da un lato il massacro e dall’altro gli occhi del giovane esterrefatti. Una persona che per un’intera giornata ripete di voler uccidere un poliziotto, esclama di voler creare una “rivoluzione”, che davanti ad un evento del genere rimane terrorizzato. Purtroppo questa ribellione tanto ambita dal protagonista, non è altro che frutto della violenza, e se proprio riuscisse ad uccidere un poliziotto, se ne genererebbe altra. Vinz non è pronto ad altra crudeltà, come chiunque altro, anche se non vuole farlo trasparire. Come Hubert dice a metà del film: “L’odio chiama odio”, e quindi, la violenza porta ad altra violenza. Il cambiamento non sarà mai possibile se i protagonisti continueranno imperterriti nel loro comportarsi in modo aggressivo e violento. Subito dopo che il giovane Hubert pronuncia questa frase simbolo dell’intera pellicola, inizia la scena più significativa del lungometraggio. Un momento così singolare, che non si è mai riusciti a trovarne una vera e propria spiegazione concreta. Mentre i ragazzi discutono, un vecchio esce da un bagno, raccontando di quando venne deportato in Siberia, ed un suo amico, per un’inconveniente qualunque, morì. Il personaggio descritto, Grunwalski, si allontanò per pudore dagli altri compagni per andare in bagno, ma cercando di salire sul treno in partenza, si spense per il freddo perché non riuscì a sistemarsi i pantaloni. Questo racconto può sembrare privo di significato, a tratti perfino comico, come è stato pensato anche dai giovani che sentendo il discorso rimangono confusi. Tuttavia, ciò che il vecchio cercava di spiegare, era semplicemente di vivere con meno orgoglio. Il povero Grunwalski, morto per la vergogna di farsi vedere nudo davanti agli amici, muore più che per colpa del freddo, a causa dell’orgoglio provato, e quindi, non lasciando che i propri amici lo notino privo dei vestiti, cercando di sistemarli continuamente, non riesce a sopravvivere. Vinz, Said e Hubert, non solo vivono in una spirale di odio nei confronti della società moderna, ma sono pieni di orgoglio, che non li fa andare avanti, lasciandoli soli e lontani da una realtà più accettabile. I protagonisti non moriranno per le rivolte o per la polizia, ma solo a causa del proprio spirito, come accadde a Grunwalski. Un’altra scena che spiega il comportamento dei giovani è quella nel museo, quando una ragazza con cui Said cerca di approcciare, descrive perfettamente il loro atteggiamento: nonostante a volte abbiano buone intenzioni, si mostrano comunque aggressivi, proprio per questo vengono visti in modo negativo.
Un altro aspetto fondamentale della pellicola, che senza dubbio ciò che qualsiasi spettatore non può dimenticare, è il racconto che apre e conclude il lungometraggio, ossia la storia “dell’uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani”. ln questa descrizione si parla di una persona, che precipitando da un edificio, si ripete per ogni piano: “fino a qui tutto bene”, per poi capire che l’importante non è la caduta ma l’atterraggio. Questa metafora non è altro che l’esposizione della società moderna, del mondo che i protagonisti vivono, in caduta libera, che sta precipitando piano piano; ma non è importante il crollo progressivo in sé, ma il finale di esso, il momento in cui la società è precipitata per sempre. Non sono significative tutte le azioni dei giovani che li portano verso una brutta fine, ma è importante la fine stessa, che li lascerà senza scampo. La conclusione del film infatti, abbandona i protagonisti nel peggiore degli scenari, dove ogni singola affermazione o pensiero sviluppato durante la giornata, arricchente o negativo che sia, rimane privo di un vero e proprio scopo.
Si potrebbe parlare per ore ed ore di un film come L’Odio, che non solo nelle tematiche trattate ma anche negli aspetti tecnici si dimostra incredibile. Un uso del bianco e nero crudo ed allo stesso modo affascinante, movimenti di camera scattanti e a volte molto più lenti, tutti resi in un insieme armonioso, che trasmettono sensazioni di sgomento ed allo stesso modo meraviglia per l’impatto visivo.
